Addio a Ezio Berti, l’ultima «scalata»
Di lui colpivano gli occhi. Lo sguardo era quello che posseggono solo gli uomini e le donne che vanno per montagne, un misto di scanzonatezza, di attenzione animale verso il pericolo, di anima rimasta bambina sempre affiorante in un sorriso. Ezio Berti se l’è portato via il Covid-19, la “peste” che ha ribaltato le nostre vite, peggio di qualunque bufera. Procedeva in “conserva corta” con la sua Gemma. Prima è scivolata via lei, impossibile da trattenere. E forse lui, per la prima volta, ha scelto di non bloccare la corda, di volare altrove con lei.
Raccontare l’uomo e l’alpinista richiederebbe un romanzo e (per ora) non si può. Per farla breve: quasi tutto ciò che si può sognare sulle “terre alte”, dalle Alpi all’Himalaya, dai viaggi in Mongolia al Canada, dalle prime salite in Carnia alle avventure in Patagonia, stava nel suo libretto delle memorie. Era il tipo d’uomo che andava dove sentiva di volere andare, una sorta di “pioniere” (come Sergio Agostinelli, che l’ha preceduto nel viaggio finale di pochi giorni, in questo tempo disgraziato) quando le montagne del mondo non erano così a portata di biglietto aereo, permessi di scalata, Gps e post su Facebook
“E morto Ezio… sono distrutto”, scrive un amico. Così è, ai tempi del distanziamento sociale, in cui non si può neppure alzare un bicchiere, spalla a spalla, e ricordare chi è andato avanti. Restano i messaggi WhatsApp (a centinaia, in realtà, nel “giro” dei montanari) pieni di dolore. E telefonate che arrivano da ogni parte del mondo, dal Sudamerica ai contrafforti dell’Himalaya. Perché, guarda un po’, certe persone lasciano una traccia, che resiste a tutte le nevicate.
Vita d’avventura, quella di Ezio Berti. Da quel gagliardetto del Gruppo Amici della Montagna, di cui era stato il padre-fondatore, sventolato in vetta ai 5.700 metri del Gondkhoro, all’inizio degli anni Novanta, quando gran parte dei più forti alpinisti del Cai veronese di oggi masticava le prime “vie”, all’ultima scarpinata in Himalaya, solo qualche mese fa. Nello zaino sempre la tessera con lo stemma composto dall’aquila con corda, piccozza e binocolo: dal 1985 per la sottosezione Gruppo alpinistico scaligero Verona (Gasv) della sezione cittadina.
Grandi “vie” classiche, esplorazione ma anche apertura al “nuovo” che avanzava. Nel Vajo dell’Orsa, nel 1987, Ezio si era trovato in una brutta situazione, quando ancora il termine “canyoning” non era stato coniato. “Lo tirammo fuori e ne seguì una cena a base di pesce da tenere nella memoria…”, ricorda Beppe Pighi, uno dei “ragazzi” che si erano messi sulle sue orme. “Mai una volta che “se la tirasse”, per lui l‘importante era portare le persone alla montagna”.
Famiglia, cime e una sola ”amante”: la fotografia. Un “virus” di cui tanti alpinisti sono portatori (letteralmente: le fotocamere pesano, oltre a corda, chiodi e ferraglie varie) più che sani. Ore spese al freddo a spiare un animale o aspettare un gioco di luce. Ezio aveva in sé due istinti paralleli: l’impulso a portare le persone in montagna e portare la montagna alle persone.